La storia della donna dal vestito di piume

Il tema del femminile mi ha fatto subito venire in mente La storia della donna dal vestito di piume, citata nel saggio di una scrittrice marocchina, Fatema Mernissi, insegnante di sociologia a Rabat (e che può essere letta a questo link alle pagg. 7-11).

La scrittrice Fatema Mernissi

Ciò che mi ha colpito maggiormente, leggendo questa breve “fiaba” (che riprende quella di Hassan Al Bas-ri, narrata nelle “Mille e una notte”), raccontata dalla nonna di Fatema prima di morire, è l’idea della donna metaforicamente associata all’immagine di un grande uccello, pronto a volare via, spirito libero che non può mai essere privato delle proprie ali: “la donna dovrebbe vivere come una nomade, sempre all’erta e pronta a migrare anche quando è amata perché l’amore può fagocitarla e diventare la sua prigione”.
L’amore, infatti, “è un’imperfetta approssimazione della vicinanza” (citazione tratta dal libro della scrittrice nicaraguense Gioconda Belli, La donna abitata) e si nutre solo attraverso la distanza; nel momento in cui, nella relazione, uno dei due poli (il maschile o il femminile) cerca di dominare l’altro e possederlo, annullando ogni distanza, eros muore.
Il mito di Orfeo ed Euridice è esemplificativo a tal proposito.

Orfeo era un musicista il cui canto era così persuasivo che riuscì a convincere i guardiani dell’Ade a dargli l’ultima chance per poter ricondurre sulla terra la sposa morta Euridice a condizione di non voltarsi mai a guardarla. Gli occhi di Orfeo, però, non saranno in grado di non dirigersi verso l’amata; in questo modo infrangerà il patto e la perderà per sempre; lo sguardo assume, pertanto, una valenza tragica così come il gesto compiuto da Euridice che tenderà la mano per cercare di riprendersi Orfeo; la tragicità espressa da questi due gesti (lo sguardo di Orfeo e la mano di Euridice) ci consente di comprendere come l’anelito al possesso sia pericoloso poiché rischia di far finire il rapporto. La distanza che separa gli amanti è la condizione stessa dell’amore e chi si illude di accorciarla potrebbe perdere l’amore.

Nel saggio L’Harem e L’Occidente la scrittrice affronta il tema del femminile considerandolo una sorta di “potere incontrollabile”, di “luogo emotivo” dal quale scaturisce una forza dirompente, inesauribile. La scrittrice analizza il tema della bellezza femminile comparando due punti di vista, quello orientale e quello occidentale, muovendo dalla differenza di significato attribuito al termine Harem. Gli Occidentali, solitamente, sorridono quando sentono pronunciare questa parola e la associano al piacere dei sensi, allo spasso, mentre per molte donne arabe è considerata prima di tutto sinonimo di famiglia e spesso anche di “prigione”.
L’harem è, infatti, “una tradizionale abitazione familiare dalle porte sbarrate che le donne non erano autorizzate ad aprire”. Dal punto di vista etimologico il termine harem deriva da harām, che significa illecito, peccaminoso e indica tutto ciò che è proibito dalle leggi religiose, al contrario di ciò che pensano gli occidentali, che lo legano all’euforia, all’assenza di limiti e a festini orgiastici. Ciò accade perché gli occidentali si riferiscono alle immagini delle danzatrici del ventre dei film hollywoodiani o agli harem dipinti nei quadri di pittori famosi come Ingres, Matisse o Picasso, che mostrano le donne quali creature “nude e passive”.

Eugene Delacroix, Donne di Algeri, 1834.

I pittori musulmani, in alcune miniature (appartenenti all’ambito della pittura profana), al contrario, le immaginano, dotate di arco e frecce e vestite con abiti pesanti, mentre cavalcano veloci cavalli, riconoscendo, quindi, la forza misteriosa racchiusa nel femminile.

Elena Apostolo

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